Considerazioni sugli attraversamenti pedonali nella Bologna degli Anni Trenta

Nel gennaio del 1932 girare per le vie del centro di Bologna «nel gran crocicchio che attraverso le demolizioni conserva ancora la pianta dell’antica città romana, può essere senza dubbio piacevole per l’artista o per il forestiero in cerca del pittoresco e del colore locale, nell’intrecciarsi curioso e furioso dei tranvai e delle automobili, tra la folla dei pedoni, dei ciclisti, dei motociclisti che volteggiano e attraversano senza regola in tutte le direzioni, in mezzo allo strombettare furibondo degli autisti, che debbono camminare di continuo ad occhi spalancati e freni pronti, pena un investimento o uno scontro in cui la colpa, come è naturale, è sempre dell’automobile».

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La confusione e il rumore sembrano essersi impossessati del centro cittadino. Alla proposta di istituire, come in altre città, una settimana del silenzio, per dar riposo alle orecchie dallo spiacevole fragore di trombe, l’onorevole Bruno Biagi, allora anche presidente dell’Automobile Club locale, fa «notare argutamente che essa, per ora, si sarebbe infallibilmente risolta in una catastrofe. Come non strombettare, quando il pedone traversa la via dove e quando gli pare, arciconvinto che tocchi all’automobilista di scansarlo o magari di fermarsi, mentre egli passa olimpico leggendo il giornale o fumando la sigaretta, sereno e lontano dalle miserie di questo basso mondo?»

Il caos maggiore, però, si raggiunge nei giorni di mercoledì e di sabato.

«Quando i campagnoli invadono il centro e vi si accampano come un innocuo esercito di occupazione, e le vie divengono come i saloni di una grande Borsa in cui si discutono gli affari e si eseguiscono i pagamenti: vedi, a tratti, una mano che si alza sulla folla, brandendo un pacchetto di fogli da cento o magari da mille, mentre lì presso, al tavolino esterno di un caffè, altri due stanno stilando all’aperto le cifre di una cambiale. Gente solida, quadrata, ben nutrita, che segue una tradizione ed esercita un diritto secolare, a cui non rinuncia, avvolta nelle sue capparelle di antica nobiltà rusticana. Tempo fa, i vigili ebbero l’ordine di far procedere lo stesso le automobili ai lati dei portici, per respingere la folla. Ma bisognò rinunciarvi. La campagna restava eroicamente ferma, e gli automobilisti non volevano commettere una strage. Pittoresco, sì, è divertente; ma incomodo».

È ormai chiaro che è necessaria una regolamentazione: servono anche a Bologna i celebri bulloni per indicare ai pedoni i passi in cui si può attraversare la strada?

«Parrebbe che non ce ne fosse bisogno, in una città porticata, dove i cittadini possono camminare tranquillamente e senza timore, come in casa propria. E finché la gente procede in senso longitudinale è appunto così; ma quando ha necessità o capriccio di attraversare, allora il portico diventa esso stesso un’insidia: molte disgrazie accadono appunto per la sventataggine di chi esce all’improvviso di tra due colonne ed entra tranquillamente nella via, senza curarsi dei veicoli che arrivano. Allora, l’investimento è inevitabile […] i portici possono consentirci il lusso di rinunciare alla mano unica, ma ci impongono vieppiù il dovere di precisare i punti in cui è lecito passare da un lato all’altro della via».

I pochi vigili, dotati del bastoncino bianco d’ordinanza, non bastano più. Si abitueranno i bolognesi ad attraversare le vie nei soli punti indicati?

«Certo, noi bolognesi faticheremo assai prima di assoggettarci a questa nuova disciplina. Tempo fa, in una grande città estera, capitava ogni tanto, anche a me scrittore, di avviarmi per attraversare fuori dei bulloni: e gli amici ch’erano con me dicevano sorridendo: “Come si vede che lei viene dall’Italia…”. Anzi, da Bologna: chè la nostra indole cordiale ci fa scambiare per casa nostra il portico e la strada, e lì ci fermiamo a discutere e a chiacchierare, senza curarci di tutto ciò che ci turbina attorno, sereni e tranquilli, e dentro di noi persuasi che il mondo va preso con filosofia.

Negli ultimi trent’anni dell’Ottocento, Bologna ebbe una fisionomia così chiara e distinta tra le altre città italiane che noi stessi, anziché adattarci ai giorni meno leggiadri e accettare questa nuova uniformità imposta dalla vita moderna, preferiamo rifugiarci nei sogni e nei ricordi del passato. Non credo vi sia città che possieda una più ricca letteratura sul suo passato recente: si potrebbe ormai mettere assieme una biblioteca. Ed è una originalità a cui rinunziare è fatica.

Eppure, bisognerà rassegnarsi. Nell’Ottocento non c’eran le automobili, e i tranvai andavano ancora coi cavalli. Non occorre aver passato i cinquanta, per ricordare i ronzini, che, ammassati in piazza Vittorio Emanuele, attendevano il turno, adorni, d’estate di certe cuffie bianche che li facevano somigliare al lupo travestito di “Cappuccetto rosso”. Il primo tranvai elettrico passò per le vie di Bologna in un giorno, se ben ricordo, del 1903; ai primi del nuovo secolo, ormai. E il pericolo più grave, per chi camminava a piedi, era dato da quei pochi brumisti e da qualche velocipedista. […] i limiti della città ottocentesca, segnati dalle antiche mura poi abbattute, sono oltrepassati ampiamente, così che Bologna in trent’anni si è raddoppiata, stendendosi lungo i dorsi delle colline e, più ancora, verso la pianura sconfinata ancora distinta dai quadrati di Roma. E la direttissima di Firenze sta per essere compiuta. Per quanto ciò possa costarci, bisogna accettare i tempi e rassegnarsi alla disciplina. E se verranno i bulloni, ci adatteremo anche a quelli, con la solita filosofia».

A distanza di 89 anni, i bolognesi hanno accettato, con la solita filosofia, una regolamentazione degli attraversamenti pedonali?

Ramona Loffredo

 


Le citazioni sono tratte da G.L., Corriere petroniano, in «Corriere della Sera», 30 gennaio 1932, p. 4.