Nella «dolorosa distruzione di tanta parte dell’arte bentivolesca, il
vecchio e romito castello del Ponte Poledrano è rimasto là tra le
bassure della campagna bolognese-ferrarese come un’oasi di memorie su cui
l’odio degli uomini e l’ingiuria dei tempi non hanno gravato troppo con l’opera
rovinosa» .
Il suo proprietario, sul finire dell’Ottocento, il marchese Carlo Alberto Pizzardi «un amatore intelligente e munifico […] con una signorilità degna delle migliori tradizioni bentivolesche, volle ridare […a questa costruzione] tutto lo splendore di cui l’aveva ornata il genio di Giovanni II» e lo fece affidando la direzione dei lavori, per circa un decennio, ad Alfonso Rubbiani (1848 – 1913).
[Quest’ultimo poche volte] ha veduto secondati i suoi progetti di restauro con tanta liberalità e poche volte ancora egli avrà sentita così dolce e cara la gioia del lavoro come in quei giorni che egli passava là tra le silenziose pianure del Naviglio a interrogare la vecchia dimora di Messer Zoane, a strappare a quei poveri muri maltrattati il segreto della bellezza antica, a farli rifiorire di tutta la grazia del rinascimento bolognese.
Lo stesso Rubbiani, a conclusione dei lavori al Bentivoglio, ricorda che
nella cronaca dei «ristauri lunghi e pazienti ci sono giorni di tenebre ma
anche giorni di luce. Pare in questi che l’antichità venga a voi, che la sfinge
parli; come pare nei bei giorni delle scoperte scientifiche che la profonda
natura affiori essa stessa per cedere il suo mistero agli uomini». [...]
Nel 1930, nella «nuova Bologna», specialmente nel «forese, nella zona che si estende fra le vecchie mura e l’ex cinta daziaria ed oltre, per strade appena tracciate e fonde ancora di carrarecce, sono sorte come per incanto nuove costruzioni. E il ritmo delle opere è tanto veloce che il ripassare dallo stesso punto dopo pochi mesi può procurarci la sorpresa di trovare un edificio nuovo fiammante dove eravamo assuefatti a riposare gli occhi in una verde distesa di prati».
Nell’area, fuori Porta San
Felice, occupata in precedenza dall’ippodromo Zappoli, il fenomeno, appena descritto, si fa
più acuto: i terreni liberi (o liberati) sono divorati dalle nuove costruzioni, perlopiù
residenziali. Nel tessuto edilizio, che si va costruendo, spiccano fra i palazzi d’abitazione alcuni fabbricati con
funzione industriale e/o commerciale come quello della Ford Motor Company
d’Italia che, costruito nel 1930, come filiale della sede triestina, diventerà,
appena due anni più tardi, nel 1932, la sede della «Ford Italiana –
Società Anonima».
L’antefatto
Quasi un anno prima della costruzione del fabbricato Ford, più
precisamente nell’aprile del 1929, quando l’ultimo «sulky svoltò l’anello
sabbioso della pista, dietro la tribuna, la campanella suonava chioccia
chioccia non solo la chiusura delle corse, ma, anche quella del vecchio
ippodromo».
Costruito nel 1888 dai «solerti ed intelligenti
industriali, fratelli Zappoli nei possedimenti dell’ex villa marchesa Davia da
loro acquistati», l’ippodromo non era stato esclusivamente,
per più di quaranta anni, il terreno attrezzato per lo svolgimento delle gare
ippiche ma anche il teatro di imprese memorabili. [...]
Catalogo della Mostra, dell’Associazione Bologna per le arti, tenutasi a Bologna a Palazzo d’Accursio dal 4 dicembre 2021 al 30 gennaio 2022. Curatrice Francesca Sinigaglia.
I «conoscitori dei quadri d’Augusto Majani sanno come
egli, che è un caricaturista dall’umorismo irresistibile, s’abbandoni spesso a
motivi di pittura morbidi e nostalgici. Se la sua penna riassume gli scoppi di
risa con tratti decisi e sintetici, la sua anima sembra farsi poi accorata, e
si lascia andare alla tristezza, come una foglia nel fiume. I carrettieri
dietro ai loro carri, per la strada bianca, in mezzo alla campagna cerulea; le
case zitte, serrate; il sole lento fra la nebbia smorta, l’aria tremolante di
punti grigi, sono aspetti del mistero che ha attirato anche quest’anno il
Majani».
Con queste parole, lo scrittore e critico d’arte Francesco
Sapori (Massa Lombarda, 1890 – Roma, 1964), in occasione della XII Mostra
d’Arte a Venezia del 1920, oltre a porre l’accento sulla «arte bifronte»
dell’artista budriese - da una parte è Nasìca, il caricaturista e dall’altra
Majani, il pittore –porta una interessante riflessione sul temperamento
delle sue opere a partire dalle due esposte: Torna il sereno e Una
tappa.
In quest’ultimo dipinto, la sosta
in un’osteria diventa una tappa, forse imprescindibile, di un
viaggio di cui ignoriamo l’origine e la destinazione; essa può, quindi, assumere
«un valore particolare in quanto è al tempo stesso meta e punto di partenza del
viaggio» ...
Il 30 gennaio 1946 arriva a Roma – lo stesso giorno del nuovo ambasciatore francese Alessandro Parodi – Gabriela Mistral (1889 – 1957), premio Nobel per la letteratura nel 1945. La scrittrice e poetessa cilena, già nella tappa milanese del suo viaggio, ha dichiarato ai giornalisti gli scopi principali che l’hanno portata in Italia: ella «vuole studiare il volto del nostro Paese nel clima della Liberazione ed incontrarsi con Benedetto Croce di cui è grande ammiratrice. La signora Mistral che nel 1934 resse a Napoli quel Consolato cileno rimarrà in Italia fino all’aprile e si recherà poi a Los Angeles dove è titolare del Consolato della sua Nazione».
In occasione della visita al Lyceum di Roma, la Mistral ha il piacere di incontrare una donna bolognese che non solo è riuscita a conseguire, nel 1918, una laurea a carattere tecnico professionale ma è anche tra le prime donne in Italia a esercitare la libera professione nel campo dell’ingegneria civile, in un ambito professionale tradizionalmente maschile.
A Lanuvio il 26 gennaio 1946, l’ingegnera Maria Bortolotti prende carta e penna per ripetere per iscritto alla Mistral – in risposta all’invito fattole dalla scrittrice cilena – quanto le aveva detto a voce in occasione del loro incontro romano. Questa lettera, dal carattere fortemente autobiografico, diventa il prezioso filo conduttore per tracciarne, grazie anche al vaglio delle fonti archivistiche e bibliografiche, la storia professionale ...
Nel 1837 fra le sei vedute prospettiche, dipinte a olio da Domenico Ferri (Selva Malvezzi (BO), 1795 - Torino, 1878) e in mostra fra gli Oggetti di Belle Arti e di meccanica esposti nelle sale della Pontificia Accademia di Belle Arti di Bologna, spicca quella che raffigura «la villa bolognese del conte Pietro Malvezzi. In questo quadro l’egregio pittore ci dà come compiuto il casino, il quale ora non lo è, ma può addivenirlo mercé del committente di dovizie fornito».
Questo dipinto, che incontra fin da subito il favore del pubblico ma non quello del suo committente, al centro di uno scambio epistolare fra Pietro Paolo Malvezzi Bonfioli (Bologna, 1780-1838) e Domenico Ferri, che permette di ricostruire la storia della sua ideazione e realizzazione. A gennaio del 1837, il nobile bolognese offre al maestro Gioacchino Rossini (Pesaro, 1792 – Passy, 1868) il proprio palco a Teatro in occasione del veglione, organizzato nella città felsinea, per l’ultimo giorno di Carnevale. Nella lettera in cui accetta la gradita offerta, Rossini confessa al conte di avere ancora «dinanzi agli occhi e al pensiero la di lei Galleria: quella Sibilla, quella Barchetta, quella Vecchietta sono pure le belle cose, felice Lei che ne è il possessore e che a sua foggia puol mirarle quanto gliene prende desiderio».
L’importante e preziosa collezione di opere d’arte di Pietro Malvezzi
Bonfioli, nota soprattutto per i quadri dei grandi maestri della Scuola
bolognese ricordati dallo stesso Rossini, è accresciuta in quegli anni da nuove
acquisizioni ...
Sono ormai poco più di un’ombra sul muro del vecchio edificio, contro il quale è addossata la vasca della fontana bassa; sono l’eco della bellezza di un tempo passato. L’edera, tenace e fedele amica, mi trattiene salda a queste vecchie e consunte pietre. Sono testimone silenziosa dei vostri passi, gesti, parole e sguardi; ho visto – sia in tempi di pace sia di guerra – nascere, vivere e morire in un’alternanza incostante di felicità, indifferenza e disperazione.
Ho osservato i cambiamenti delle regole, delle abitudini e del ritmo della vita quotidiana. Sono sempre stata in disparte, in un angolo, nel piazzale davanti alla villa; io non sono come Ercole che, al di sopra della fontana alta, cerca la vostra attenzione gareggiando in bellezza e preziosità con le altre statue del giardino terrazzato. Loro rappresentano lo straordinario, io l’ordinario e la semplicità del quotidiano. Io cerco il vostro sguardo solo quando siete in prossimità della mia fontana. Accompagno idealmente il vostro gesto con il mio, anch’io raccolgo l’acqua. Vi siete accorti di me? C’ero prima del primo giorno di cui voi avete memoria, di cui i vostri nonni hanno memoria, di cui i vostri bisnonni avevano memoria. Sono testimone delle mutazioni, delle trasformazioni di questo luogo fatto di pietre e di piante ...
Consultabile online:
https://patrimonioculturale.regione.emilia-romagna.it/notizie/2021/i-racconti-del-giardino-scritti-n...
Il 24 marzo 1930 Giovanni Paolo Morassutti (1880-1961), facoltoso imprenditore friulano originario di San Vito al Tagliamento, vende il complesso immobiliare, con un parco di tre ettari ma non i terreni agricoli, alla Croce del Biacco all’Ospizio Rachitici Enrichetta Trentini e Preventorio antitubercolare di Bologna rappresentato dal presidente del suo Consiglio amministrativo, Elena Ghiron vedova Sanguinetti.
Questo atto sancisce una frattura dell’assetto fondiario consolidatosi nei secoli, spezza definitivamente il legame fra la villa e l’impresa agricola da cui traeva «una ragione materiale e morale di esistenza e di espansione». I terreni rimasti al Morassutti includono anche i «viali bellissimi» di accesso - che da lì a poco scompariranno – elementi centrali attorno ai quali, nella prima metà del Settecento, era stato ridefinito il rapporto tra la residenza signorile e la campagna, tra la villa e gli assi viari principali. Rimane il parco, con le sue belle e ricche alberature, a fare da corona all’imponente volume della villa e agli edifici annessi (una casa dell’ortolano, un oratorio pubblico e una stalla) appartenuti alla famiglia, di origine genovese, dei Pallavicini Centurione ...
L’11 gennaio 1931 Giovanni Boldini muore nella sua casa in boulevard Berthier a Parigi; il feretro è trasportato nella natia Ferrara per essere tumulato nel cittadino Camposanto monumentale. Il 17 gennaio alla Messa solenne nella chiesa di San Francesco segue «la tumulazione provvisoria del pittore in un loculo dell’area Giordani di proprietà del Comune, ceduto gratuitamente».
Il 13 febbraio 1931 la giovanissima vedova, la giornalista torinese, Emilia Cardona, «avendo piena fiducia nella scelta fatta dal [Podestà di Ferrara] comm. Ravenna», propone all’ing. Carlo Savonuzzi la progettazione del monumento funebre, che lei desidera «nel genere di quello esistente di un Inglese in faccia al Cimitero e che mi piace molto. L’idea dei 4 cipressi attorno alla massa bianca del mausoleo è quello che mi piace come assieme. Studiando poi il Mausoleo in se stesso vorrei che fosse più importante rimanendo tuttavia semplicissimo e di stile moderno. Insomma la bellezza dovrebbe esser data dalla proporzione della massa. Vorrei fosse in marmo. Detesto tutti i capitelli di stile e tutto quello che è copiatura di monumenti classici. Se nel suo progetto trovasse utile mettere un busto potrei far copiare quello che posseggo di Gemito. Non vorrei altre sculture, ma una bella linea architettonica non ne ha bisogno. Scusi se le scrivo così quello che penso, ma se lei mi fa il piacere di accettare questo incarico è meglio già sappia le mie idee che sono quelle di un profano ma che il suo talento cercherà di conciliare con le leggi dell’architettura che è veramente la madre di tutte le arti quando è intesa da un artista [...] se accetta [...] la pregherei di mettersi presto al lavoro perché vorrei veder presto la dimora eterna dei resti mortali del caro e grande Uomo che è stato per me di una bontà senza fine…
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