Note del 1898 sul Castello di San Martino
La lettura del numero, pubblicato il 1° gennaio 1898, di un’interessante rivista quindicinale italiana e straniera di scienze, lettere e arti dal titolo “Natura ed arte”, offre l’occasione per poter scrivere qualche nota su un tema sempre di grande fascino: il castello. Non si scriverà di un generico castello ma del castello di S. Martino a Minerbio nella provincia di Bologna.
Anche nel basso bolognese, nella grande pianura fertile e tranquilla che si estende dal lato settentrionale della città sino ai confini del territorio ferrarese, là dove i bei campi ricchi di messi e di foraggi si trasformano grado a grado in vastissime valli, in abbondanti risaie e in paludi melmose perdentesi fra la nebbia, l'acqua e il pantano, non mancano quegli estetici e colossali edifizi che i signori del medioevo costruiron con singolare magnificenza per tramandare alla posterità, insieme al loro nome e al ricordo delle loro valorose imprese, un simbolo della loro fastosa e audace potenza. E il castello di S. Martino, situato nel Comune di Minerbio, a venti chilometri circa da Bologna, è per l'appunto uno di questi avanzi medioevali, passati di Signoria in Signoria attraverso mille ignote strane vicende, riedificati, restaurati, alterati con innumerevoli sovrapposizioni architettoniche, e finalmente rimessi, per quanto fu possibile, nello stato primitivo con quella cura e quell'amore che oggi soltanto pochi intelligenti e ricchi amatori dimostrano per tali preziosi reliquie, rimaste per tanti e tanti anni neglette nel nostro bel paese così abbondantemente cosparso di preziosi monumenti. Nella campagna uguale, deserta, monotona; in un luogo che si direbbe abbandonato e remoto, tanta è l'altissima quiete che vi domina e la malinconica uniformità dei dintorni sebbene non manchino i ridotti e le borgate e i villaggi sudici rumorosi, pettegoli; non molto lontano da quel torrente Zena che, ascendendo dall'Appennino a Pizzocalvo lambendo le falde del Farneto, attraversando la Via Emilia e scorrendo tra la Savena e l’Idice va ad irrigare con questi due piccoli fiumi la valle padana, sorge la superba mole tutta armata di punte, di merli e di torrioni, circondata da una larga fossa, munita di un solido ponte levatoio, severa, elegante, inespugnabile, con attorno le case fattoriali, e le casupole del borgo, e la chiesa, e le logge che servono per tenervi al coperto le mercanzie nei giorni di fiera.
Copertina della Rivista "Natura ed Arte" del 1° gennaio 1898 (composizione di L. Conconi)
La storia del castello di S. Martino è «un poco oscura, e straordinariamente intricata», ma quello che a noi interessa è chiaro ed è accaduto nel 1882: l’acquisto della proprietà da parte dei conti Cavazza. Quest’ultimi hanno riportato il castello
alla sua primitiva bellezza, mettendo mano a grandi e difficoltissimi lavori di restauro, e curandone soprattutto l'architettura esterna, che nelle sue principali linee, risponde al tipo di quello originale del secolo XV, epoca in cui i Manzoli compirono intorno all'edificio i più importanti mutamenti.
Dall’osservazione diretta dell’edificio nascono le prime riflessioni utili a delineare le linee guida del difficile restauro.
Scendendo nei sotterranei della grandiosa mole si scorgono tutti i molteplici stili che vennero sovrapposti di secolo in secolo, sino a formare l'attuale costruzione. Ma era cosa assai difficile scegliere un tipo unico, sul quale oggi si potesse ripristinare l'antico castello medioevale senza timore di incorrere in anacronismi di forme di concetto. E di questi se ne incontravano assai nell'interno e nell'esterno dello storico ambiente. Le ricostruzioni avvenute nei secoli XV e XVI avevano cancellato ogni ricordo dell'abitazione primitiva, più militaresca, e certo meno sontuosa, sorta nel XIV secolo: la cornice e la guglia del torrione rivestivano i caratteri di un'epoca assai posteriore e lasciavano intravedere le forme di un campanile ecclesiastico; alcune tracce di policromia sparivano qua e là, fra il calcinaccio, sui vecchi mattoni: sotto l'intonaco, che ricopriva e beccatelli si rinvennero anche pochi indizi di un'antica pittura fresco: fu inoltre trovata sotto la merlatura una data misteriosa: quella del 1411.
Le difficoltà, dunque, aumentavano mano a mano che le indagini si approfondivano e gli studi tentavano di risolvere ogni singola questione di restauro che s’andava affacciando alla mente di coloro, cui erano stati affidati i lavori.
Ma né il dott. Alfonso Rubbiani, né l’ing. Tito Azzolini, eran gente da perdersi d'animo. Il primo, con la sua grande erudizione, con quella profonda conoscenza del classicismo che egli ha acquistata compiendo lunghe e assidue ricerche archeologiche, appassionandosi perdutamente rendendosi anche assai noto nel mondo scientifico ed artistico, con quello squisito senso d'arte e con quell’acutezza di critico che sono, senza alcun dubbio, le più spiccate virtù del suo geniale intelletto, riuscì a risolvere con segreta e lenta pazienza ogni problema e ad appianare tutti gli ostacoli che s’accumulavano d’innanzi all'opera rinnovatrice; che seppe pure conservare al castello quell'aspetto prettamente medioevale che gli fu dato nei primi tempi della sua restaurazione. Anche l'ing. Azzolini, un sapiente architetto, si adoperò a condurre a fine i lavori con impeccabile perizia.
Molto interessante la descrizione degli spazi esterni, a partire dagli ingressi, dopo il restauro.
Al castello si accede mediante
un grande ponte levatoio per cavalli, o pel ponticello della pusterla ad uso di
pedoni: al di sopra dell'arco d'ingresso figurano gli stemmi dei Medici, dei Riari
e dei Manzoli, v’è pure un'iscrizione in cui è rammentato il riconoscimento del
dominio rilasciato ai Manzoli dal pontefice Leone X. Sorpassata una bassa corte in cui trovasi la
casa fattorale, si entra per una seconda arcata in un bel cortile circondato da
una loggia a capitelli ionici, ove per varie porte, si passa negli appartamenti
signorili. Attorno alla loggia sono i blasoni dei Caccianemici, del Comune di
Bologna, degli Estensi, degli Ariosti, dei Manzoli, dei Marsili Duglioli e dei Cavazza.
Il disegno è policromo, e lo stile rammenta quello della Rinascenza.
Nella descrizione dell’interno, grande spazio è dedicato all’opera del pittore e decoratore Achille Casanova (1861-1948).
Nell'interno i restauri sono stati condotti con grande intelletto d'arte. Il pittore Casanova guidato da quel colto e fine intenditore che è il conte Francesco Cavazza, imitando le antiche pitture murarie, e ispirandosi all’aristocratica severità di quell'ambiente medioevale, ha potuto decorare le varie sale con un'arte squisita e meditata, parafrasando il vecchio stile e rispettando ogni minimo particolare, intraveduto sulle pareti sgretolate o rammentato da quel Giovanni Battista Bombello che, da buon cortigiano, lasciò una memoria autografa: “Sulle lodi della Villa e del Castello di S. Martino”, quali si trovavano nell’anno 1577 sotto la padronanza dei Manzoli.
Ritornando all’insieme…
È impossibile farsi un'idea precisa dello sfarzo che vi regna, del lusso che vi è stato profuso. Ma, la ricchezza del mobilio, l'artistica disposizione d’ogni suppellettile, la magnificenza delle decorazioni, la scelta dei minimi oggetti e la giustezza dei toni, costituiscono un'armonia, un ordine, una regola inarrivabile e perfetta. E non v'è opera d'artefice che sia riuscita più felice di quell’insieme pazientemente e diligentemente pensato, e che meglio esprima la studiosa dura posta per non cadere in errori estetici o in deplorevoli anacronismi, e che maggiormente indichi la preoccupazione di riuscire a raggiungere veramente un alto e sottile diletto intellettuale.
La passione dell'antico, oggi, ci tormenta un po’ tutti; per alcuni è una febbre, un accecamento, un'ossessione; per altri è una smania di accumulare, di raccogliere, di affastellare senza un criterio giusto: ed è anche una forte causa di dispendio. Ma non basta aver denaro da procurarsi delle cose, uniche, rare, preziose; bisogna saper disporle, bisogna saper intuire l'effetto immediato che esse possono offrire all'occhio del profano, bisogna sapere immaginare il mezzo più semplice col quale ottenere da esse la migliore fusione di linee, la più corretta musicalità di tinte, la più logica e schietta e suprema efficacia decorativa. E di questa singolare virtù - io credo fermamente - deve essere in pieno possesso il conte Cavazza.
Il quale ama inoltre di
circondarsi d’uomini intelligentissimi e sapienti, di eruditi, di artisti, di
letterati; poiché egli è un mecenate dei tempi moderni, e, come vuole la
modernità, sa raccogliere intorno a sé tutte le personalità più note tutti gli
ingegni più eletti per pascersi di nobili e grandi ideali e per rifuggire alla
comune volgarità. Negli anni 1883 - 84 - 85 e gli fece seguire restauri del
castello di S. Martino; dopo, per rammentare questa importantissima opera,
dette alle stampe in una superba edizione di gran lusso, stile bizantino, uno
splendido “Album”, contenente alcune notizie intorno all'antica mole, la
descrizione dei lavori compiuti nella medesima, la narrazione delle diverse
vicende che adesso a toccarono per l'andar dei secoli e la memoria lasciata da
Giovan Battista Bombello, le rime scritte in varie epoca sopra le imprese e gli
emblemi che si trovavano nel giardino e nelle sale ora scomparsi. A questo
pregevolissimo opuscolo collaborarono il Rubbiani, Corrado Ricci e il Sezanne; i
primi due per la parte letteraria e quest'ultimo per la parte illustrativa.
Una straordinaria festa ripropone le antiche atmosfere
Anche, e non è gran tempo, nel castello di S. Martino fu organizzata una singolare festa campestre, alla quale convennero dame e cavalieri dell'aristocrazia, e per la quale cooperarono molti artisti bolognesi come il Panzacchi, il Sezanne, il Lolli, il Casanova fabbricando rustiche capanne caserecce, dipingendo insegne ideando motti e versetti. In quella giornata splendida, nel bel prato che si stende ai piedi del bruno edifizio frastagliato di merli e di torri, fu rivissuta per un attimo la vita degli antichi tempi: la vita festosa e rumorosa che gli aviti feudatari offrivano agli ospiti ristorandosi e bevendo, apprestando canzonieri, disponendo ogni sorta d'allegri sollazzi, e dimenticando in tal modo quell'altra vita monotona, rozza, agitata dei giorni comuni, delle epoche guerresche dei periodi accidiosi.
Io ignoro quali siano ora le abitudini della nobile castellana e del suo signore, la dentro, in quelle fastose stanze di S. Martino, al cospetto dei grandi guerrieri incorniciati nelle vecchie tele, fra quelle pareti arabescate, o sotto quelle volte che parlano un linguaggio arcano ed iperbolico. Ma io me li immagino nella vasta sala baronale tutta contornata di cassapanche intarsiate ed istoriate, tutta addobbata di stoffe di arazzi, tutto illuminata della fiamma crepitante veemente che si agita e si contorce e si allunga sotto il largo camino del Cinquecento proiettando fin sul soffitto a cassettoni le loro ombre e quelle degli ospiti, raccolti intorno, in un tranquillo conversare. E penso che debbon provocare un raro godimento, illudendosi essi, per un poco, di esser caduti in pieno medioevo, rimanendo suggestionati dall'ambiente, immaginando tutta la nobiltà dei costumi cavallereschi, tutta l'austerità delle usanze patriarcali, tutta la teatralità dei giuochi, dei convitti e delle danze in abiti "rococò".
Ivi la dama curva sul filatoio, con un lento ritmo delle mani fila; i cavalieri, d’intorno, le parlan d'arte con un profondo convincimento, o pur ripetono sorridendo una strana e paurosa leggenda, o pur narrano sottovoce la triste novella occorsa nella città lontana, o pur stanno intenti ad ascoltare l’ululo del temporale che imperversa, e i sibili acuti del vento che passa fra i merli della torre. La notte è malinconica, burrascosa, caliginosa; forse nessun romeo più arriva così inzuppato d'acqua come quei messeri che le stanno allato.
Io me lo immagino così! …
Ma il signore leva di tasca una scatoletta, accende un fiammifero e dà fuoco ad un sigaro. Ahimè! Quel tenue chiarore ha diradato d'un tratto le tenebre medioevali: il sogno è svanito; e si è affacciata improvvisamente la grande realtà, incancellabile e schiacciante, di questo secolo decimonono.
Con queste parole si chiude l'articolo di Sarti, da qui si potrebbe ripartire per un nuovo racconto del secolo ventunesimo...
Ramona Loffredo
Bibliografia
Citazioni e immagini tratti da: C.G. Sarti, Ruderi e Castelli. Il Castello di San Martino, in «Natura ed arte. Rivista illustrata quindicinale italiana e straniera di scienze, lettere ed arti», A. VII (1897-98), n. 3, 1° gennaio 1898, pp. 211-216.